Eno-Trattoria Da Beppino
Via Valdicastello Carducci, 34
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Iniziamo la pubblicazione delle nostre ricette con uno scritto molto fascinoso e divertente sulla storia della Polenta.
Lo scrive con abilità il Dr. Augusto Guidugli, appassionato e cultore di vini e gastronomia, raccontandoci i riti della nascita di un piatto storico della nostra cucina Versiliese.
Un grazie sincero! Daniele Lazzerini.
Augusto Guidugli
Inizierò il mio scrivere con un “mangiare” antico, che sia pura storia e tradizione, alimento primordiale fatto di sola acqua, farina e fuoco.
Non meravigliatevi troppo se vi sembra una proposta tanto comune ed insignificante da non meritare gli onori della precedenza, perché la polenta, nella storia dell’uomo, è stata (e lo è ancora) tanto importante da precedere per meriti caviale, salmone, aragoste e tartufi. Per di più, soprattutto voi, giovani lettrici... sapreste farla una polenta? Con quanta acqua? E come? Fredda o bollente? E quanta ha da essere la farina per un paiolo da sei persone? E la farina si mette tutta d’un botto o si sfarina lentamente, a pioggia? E la consistenza? Si può, in cottura, aggiungere acqua o farina? E quand’è che è cotta? Come si tagliano le fette? ... certamente lo saprete, ché in casa c’è sempre una nonna, una zia o una mamma che, in fatto di polenta, la sa lunga.
Ma prima impastiamo un po’ di storia. L’uomo, quello molto antico, dell’Età della Pietra, imparò assai presto a frantumare tra due sassi i semi dei cereali che crescevano spontanei e a farne delle polveri. Poi, nell’Età del Bronzo, quando seppe costruire le pentole, è facile pensare che uno dei primi cibi “lavorati” che imparò a cuocere fosse proprio un intruglio in acqua di quelle sue “farine”.
Al tempo dei Greci, questa pappa aveva già una storia ed un nome: POLTOS. I Romani, un po’ dopo, grandi coltivatori di cereali ed esperti nell’arte della molitura, macinavano di tutto: semi di graminacee e di legumi, miglio, spelta, orzo, grani, ceci e fave. Chiamarono PULTES le loro pappe (PULS al singolare) e dal farro (FAR) chiamarono FARINA le loro “polveri”. I Romani poveri si alimentavano molto di PULS di farina di lenticchie; e fu proprio questa PULS di lenticchie, LENTIS in latino, che dette il nome alla POLENTA. I Romani ricchi aggiunsero alla polenta scevra, che era poco buona, il companatico che chiamavano PULMENTUM.
Grandi mangiatori di polenta erano i legionari, che furono perciò detti PULMENTARII e, dal punto di vista della dignità, era meglio che dire polentoni! Le polente, come tutte le cose romane, divennero anche piatti sontuosi, arricchiti con latte, cacio e carne d’agnello. Apicio, famoso letterato di quei tempi, descrive la PULS PUNICA, che lui preferiva condita con formaggio, latte, miele e uova alla PULS IULIANA, fatta di sola farina di spelta!
La PULS latina tramontò presto dal firmamento gastronomico romano, per I‘inconsistenza delle farine e per il successo di un astro nascente: il PANE LIEVITATO.
Ma ecco che un giorno, dalle Caravelle di Colombo o giù di lì, sbarcò il nuovo grano, che gli INCAS chiamavano MAIS e che gli ITALIANI chiamarono GRANTURCO: dapprima utilizzato solo come foraggio, finalmente il giallo grano delle Americhe approdò a Venezia e per la polenta fu una nuova giovinezza.
Il granturco trovò nel Veneto terra di elezione, e fu un trionfo, nel bene e nel male.
Le nuove polente divennero presto cibo di assoluta sopravvivenza sulle mense delle genti di campagna, tragedia sociale nelle popolazioni povere che conobbero la pellagra, ma anche cibo consolante di appetitose evasioni conviviali. Diffusasi in tutto il Mediterraneo la coltivazione del granturco, l’uso della polenta inondò anche le tavole di Toscana, e fu cibo versiliese, alimento quotidiano dei pasti dei nostri vecchi, presenza assoluta, nutrimento inevitabile fino a divenire ossessione e leggenda.
Silvano Alessandrini, amico indimenticato e maestro di memorie versiliesi, in quella sua deliziosa commedia che è “L’AMORE SENZA ASPOSTROFO”, Per bocca di Conchè aggiusta-ombrelli filosofo, fa entrare in scena la polenta così: ‘Un è mia il mi’ nome vero... ora te lo spiego… vedi, la bonanima de la mi’ Gemma, la mi’ moglie, quando s’avvicinava l’ora del desinà e ero torno a casa, mi chiamava: “O To’” -le’ mi chiamava Tonio che è il mi’ nome vero- “O To’, ti faccio la polenta oggi?”, e un giorno sì e quell’altro anco era sempre polenta. Allora io rispondeo: “O Gemma, con che?” e dagli oggi, e dagli domani, mi c’è rimasto il nome>.
Fare la Polenta era un rito, un rito vissuto nell’inconsapevolezza delle abitudini quotidiane che, solo col tempo, sarebbero divenute leggenda.
In tutte le cucine, sotto la cappa del camino, c’era sempre appeso alla catena un paiolo, e, sotto, il fuoco acceso. Quando l’acqua bolliva ci si versava dento la farina, a pioggia, e si mescolava in continuazione, col mestone di legno. Il “mestone” non era una mestola qualunque, ma quasi un bastone di “fania” modellato a spatola nella parte che entrava nel paiolo e rotondo dove lo impugnavano le mani. La farina gialla era di grana grossa, macinata a pietra nei molini ad acqua. Anche per la polenta c’era la primizia, quella di farina novella, dal granturco appena scartocciato e macinato per Santa Maria. L’abilità delle donne si misurava nell’arte di fare una polenta liscia, senza gnocchi: c’era da mestare senza riposi, a larghe spirali che raschiavano le pareti ed emergevano al centro del paiolo perché l’impasto non si “attaccasse”. Quando l’acqua, a occhio, aveva preso tutta la farina, si tirava avanti per la cottura. Se il paiolo era grosso e la polenta si faceva dura, mestare era faticoso. Qui gli uomini davano una mano. C’era, nel canto di tutti i camini, una tavola stondata da un lato, che si adattava alla pancia del paiolo e che serviva per tenerlo fermo con un piede ed avere tutte e due le mani libere.
La polenta cuoceva solo dopo tre quarti d’ora, ma anche la cottura si valutava a occhio. Era cotta quando staccava da se. Si dava allora l’ultima mestata, a mezza strada tra un segno di esorcismo e uno di magia, che sembrava raccogliere, in mezzo al paiolo, il grande impasto, nell’attesa dello sbuffo di un ultimo bollore: era il segnale.
Lesti, si sganciava il paiolo dalla catena e si rovesciava d’un botto sulla tonda tavola di legno, coperta da un canovaccio di canapa.
Le quattro cocche del tovagliolo si annodavano a croce e si lasciava riposare qualche minuto.
Il rito della cottura era finito, e iniziava quello più magico del pasto.
Era sempre una donna che partiva la polenta.
Col filo di refe ne faceva quattro spicchi e da ogni quarto tagliava le fette. Col filo, ché la polenta resta attaccata alla lama del coltello e alla lingua dei gatti.
Il taglio delle fette, nei movimenti, aveva il fascino dei grandi riti propiziatori: un quarto di polenta sulla mano sinistra, il palmo protetto da un tovagliolo e un capo del filo di refe trattenuto dai denti e l’altro tra l’indice ed il pollice della mano destra.
Il movimento era rapidissimo, quasi da ricamatrice: il filo tagliava la polenta e la I fetta cadeva nel piatto: poi, sulle fette scevre, consolatore, calava, a cucchiaiate, il companatico, che poteva essere abbondante o non esserci per niente, sempre lo stesso o tanti quanti i giorni dell’anno.
La storia vuole che il companatico più magro fosse solo il sapore del salacchino appeso al trave, sopra il quale si sbatteva, appena, la fetta di polenta; la tradizione, che quello più amato fosse - com’è ancora - il coniglio in umido con le olive.
Ma companatico era tutto: fagioli all’uccelletto o un cornocchio di salsiccia coi rapini, baccalà lesso, una fetta di cacio o un solo, breve, filo d’olio. Quando avanzava la polenta, era sempre buona per un altro pasto, per la merenda dei ragazzi o per la cena di tutti: fosse una fetta “diaccia”, o abbrostolita o, meglio ancora, fritta.
Storie di tempi lontani, ma la polenta resta nella realtà della nuova cucina, anche se, dalle case delle donne, è ascesa alle mense dei cuochi.
La lunga vita della polenta vive la sua nuova stagione in piatti di fantasia o in preparazioni ispirate alla tradizione e rivisitate per raffinati menù di commensali che non hanno più fame: ce lo possiamo permettere e fa piacere.
Fra caviale e storioni, civet di lepre e fagiani al tartufo rallegra scoprire che il delicato budino alla fonduta non è altro che la faccia nuova di un’amica antica.